Gigliese

Fra Gio Batta dal Giglio


Fra Gio Batta dal Giglio




Padre Giovan Battista dal Giglio, Cappuccino predicatore, al secolo Giuseppe Pini, nacque all'Isola del Giglio il 26 Gennaio 1808 da Giovan Battista Pini e Preziosa Maria Baffigi. Il padre, Sergente, partecipò alla difesa del Castello contro l'ennesimo, ma ultimo assalto dei pirati tunisini del 18 novembre 1799; in seguito ebbe la promozione a Tenente. Ha lasciato un manoscritto della relazione sullo svolgimento della battaglia e l'elenco delle persone alle quali era assegnato un ruolo ed un posto ben preciso.

Fu battezzato il giorno seguente, 27 gennaio 1808 sempre ad Isola del Giglio nella Chiesa parrocchiale di Giglio Castello San Pietro e Paolo Apostoli. Gli ha fatto da Padrino un certo Francesco Torre di Centocelle (Civitavecchia) tramite il procuratore Mattera Ignazio.

Giuseppe, però, non seguí le orme del padre per una vita militare, ma preferí dedicarsi alla vita religiosa vestendo il saio dei Frati Francescani Cappuccini il 13 marzo 1824. Da un suo manoscritto si evince che nell'anno 1828 era "Chierico Studente Cappuccino". Come si vede dal sonetto che gli hanno dedicato i parrocchiani di Fabro, pubblicato qui accanto, nell'anno 1840 compie il suo apostolico ministero; con tutta probabilità aveva deciso di predicare il Vangelo ai piú poveri.

Partí per l'India come missionario e fú assegnato alla Missione Guardina di Agra, poi alla Missione di Patna; ma la sua malattia, ulcera o cancro allo stomaco, velocemente peggiorò finché il 1° luglio 1849 morí, a soli 41 anni, a Bhagalpur sul fiume Gange e il giorno seguente fu sepolto dai fedeli nella sua Chiesa.
L'epitaffio posto sulla sua tomba nella chiesa di Bhagalpur ne perpetua il ricordo "a zelaous priest and warm friend" (un prete zelante ed un amico caloroso).
Il necrologio della sua provincia romana lo ricorda come "fervidus animarum zelator, qui iuvenis adhuc sed laboribus attritus, sancte obiit" (un fervente fanatico delle anime, che era ancora giovane ma sfinito dalle sue fatiche, morí santamente).

Del Padre Giovan Battista dal Giglio ci rimane una sua lettere autografa inviata ai genitori in data 15 luglio 1848.

Al Sig. Giovan Battista Pini, Tenente
Tramite Calcutta/Marsiglia
Italia/Livorno
Per Isola del Giglio

Cari ed amati Genitori
Indie orientali-Gran Tibet, 15 luglio 1848 Patanà (Patna)

Ora è un anno che io non ho piú nova alcuna circa il vostro stato, ma io me lo figuro non troppo felice atteso queste rivoluzioni, che tutto il mondo è in convulzione e sembra siamo giunti vicini alla fine del mondo. Io grazie siano sempre al Signore sono stato sempre bene, ma ora mi trovo alquanto debole a motivo che qua si beve sempre acqua e sempre si sta bagnati di sudore giorno e notte per il gran caldo, io però bevo bonissimo tè con latte che provvedo dalla Cina e mi favoriscono questi miei buoni convertiti cristiani, nell'India le carni, i pesci, i frutti non hanno sostanza, sono sciocchi e senza sapore a motivo che qua la terra è come la cenere e sabbiosa, bassa, a livello del mare, motivo per cui in ogni luogo si scava pochi palmi di terra si trova acqua. Questi popoli sono veramente infelici, credete che la loro condizione è molto al disotto di quella delle bestie, tolto l'uso della ragione, se voi li fate favori sono ingrati, vi disprezzano e hanno alcun rispetto; ma se voi li bastonate, li trattate malamente e come le bestie vi onorano, vi temono, vi rispettano, per loro le migliori cortesie e gentilezze sono le bastonate, hanno la pelle nera e dura come quella de bufali; il loro cibo è veramente miserabile, vivono nelle capanne fatte interamente con foglie di palme, dormono per terra sopra il lastricato di sterco di vacca da loro tenute in gran venerazione, come materia benedetta e santa, poiché loro adorano le vaccine e pena la morte chi uccidesse una vaccina, e beato fra loro chi può morire colla coda della vacca nelle mani, questo secondo loro va dritto in Paradiso, poveri infelici quanti centinaia di milioni stanno nell'India di questi poveri idolatri, i digiuni che essi fanno, mortificazioni ad onore del diavolo, che se le facessimo noi per amor di Dio saressimo santi, pregate, pregate per la loro conversione.

Quanto ci sarebbe da lavorare qua nell'India se ci fossero Missionari, che vasto campo, Dio mio ! è un mondo di gente, e tutti gentili, che adorano creature e non conoscono il Creatore, è una continua pena di compassione per un povero Missionario il vedere tanti milioni di questi idolatri fori dal grembo di santa Chiesa, basta preghiamo per loro. La vita di un Missionario è una continua croce e un continuo penare, ma quello che si soffre per amor di Dio è tutto dolce, un povero Missionario non ha altro che Iddio, ed in esso si possiede tutto, ed il tutto è dolce e soave. Qua nell'India ora si sta in perfetta pace e sembra che Iddio voglia punire l'Europa, gran mondo veramente cattivo, quando sarà che andremo in paradiso ? Presto, presto, coraggio, coraggio che alla fine Iddio darà il premio a seconda delle nostre opere, e chi persevera sino alla fine sarà salvo. Questi idolatri quando incontrano noi Missionari si inginocchiano e ci adorano credendoci Iddii, questa gente adorano ogni cosa, sole, luna, mare, acqua nei fiumi, volatili, alberi, fuoco, vento, serpi etc., solo Iddio non conoscono. Nella Cina vi è costume che tutte le ragazze quando sono giunte all'età di 6 anni i genitori li fanno un paio di scarpe di ferro, e queste devono portare tutto il tempo che vivono, né ce le possono piú cavare, di modo che il piede non può crescere, e rimangono le donne con li piedi piccoli come le creature, mezze stroppiate che appena possono camminare, e questo lo fanno a solo fine acciò le donne non scappano, vedete dove giunge la stoltezza di questi idolatri, o per dir meglio birbonaria, Qua nell'India vi sono serpi cosí grandi che ingoiano vaccine, cavalli intieri , on lunghezza sono circa ciento piedi ed ànno il corpo come grandi botti, fanno terrore a vederle, e guai a chi capita vicino a queste bestie non scappa piú, e solamente si trovano questi gran serpi nei monti e luoghi isolati. Io mi trovo stazionato sulla sponda del fiume Gange a via buona, e con otto giorni con il vapore posso andare per il fiume a Calcutta, il fiume Gange è pieno di vapori inglesi che da Calcutta portano ogni sorta di generi in tutta l'India, e particolarmente nei luoghi dove sono stazionati i soldati e la robba qua è tutta cara, mentre il tutto viene da Londra e dalla Francia.

Io spero nel Signore di rivedervi prima di morire io, o voi, e se vedo che la salute non mi assiste stante la debolezza doppo qualche altro anno dimando di ritornare, il che io farò con dispiacere avendo preso ora affezione a questi luoghi e a questi poveri Cristiani, basta vedremo sarà quello che Iddio vuole. Qua si fa molto bene nell'assistere a questi poveri Cristiani, e spesso sé ne convertono. Qua un sacerdote è prezzioso , ed i Cristiani non ce lo lasciano scappare, ed è guardato giorno e notte onde non vada via dalla stazione, vedete dunque la divozione, la fede, la religione di questi Cristiani Indiani, al Missionario lo rispettono e temono grandemente, e quando devono andare da una città ad un'altra o intraprendere qualche viaggio dimandano il permesso e benedizione dal Missionario, e senza il permesso e benedizione del Missionario nulla fanno, in tutto dipendono, non sono come la canaglia dei Cristiani di Europa, che possono vedere i Preti ed i Frati come il diavolo e la Croce, veri birboni Cristiani. Pregate per me che mi trovo fra gente idolatra, e fra tutte le sette, ed eretici protestanti che sono in Inghilterra, sono ancora qua nell'India e saranno circa trecento sette, Dio mio quanti pericoli vi sono per un povero Missionario, e se da noi è sufficente un grado di virtú per vivere religiosamente, qua non abbastano cento, ma il Signore supplisce a questo, e quando un Missionario lavora per la gloria di Dio, credete che Esso da tal coraggio, forza, fervore e consolazione, che tra le pene e afflizioni uno si trova in Paradiso. Quante volte mi sono state offerte gran Madame di rango inglesi ma eretiche per mogli, se io avessi apostatato dalla mia religione e offerto ancora gran somme di danaro da vivere da Milord se io avessi ciò fatto. Ma di ciò Iddio mi libera, voglio morire per l'amor del mio Iddio, né voglio tradire la mia Madre Religione, il mio Iddio, rinunzio ben volentieri ad ogni cosa di questo mondo e solo desidero e bramo la vita eterna ed il mio Creatore, per la gloria del quale voglio spendere e impiegare tutta la mia vita, colla sua divina grazia, di ciò lo spero. Facciamoci coraggio in questa valle di miserie, il Paradiso non si da ai poltroni, ma a chi lavora, soffre, patisce per amor di Dio. Ma mia cara mamma vive ? Ah ! Io la porto sempre in mezzo al cuore, quante lacrime à sparso per me, ma lacrime benedette, che Iddio saprà bene ricompensare,

fatili mille saluti e datili mille baci per me. Salutate Tommaso, Caterina e tutti i parenti, come anco tutti codesti buoni sacerdoti, e vostri superiori. Accettate ora gli affettuosi rispetti di un vostro caro ed amato figlio unitamente alla mia cara Mamma, mentre baciandovi umilmente le mani, e pregandovi sempre di vostra santa benedizione, mi raffermo con filiale affetto
Vostro amato figlio
Fra GioBatta dal Giglio Missionario Apostolico Cappuccino
Gran Tibet Indie Orientali
15 Luglio 1848

P. s.

Vi raccomando la mia sorella Caterina, amatala, perché è vostra buona figlia. Inteligenti pauca (A buon intenditor poche parole). Fatolo per amor mio.





Documentazione gentilmente fornita dal padre Giacomo Carlini, Archivista della Provincia Romana dei Frati Minori Cappucini


Roma, Archivio Provinciale Cappuccino
Registro dei morti 1836-1878
Pag. 55, n. 194

Molto Reverendo Padre Provinciale Provincia Romana

Darjeeling, 7 luglio 1849

Molto reverendo Padre,
con questa lettera do alla vostra reverenda Paternità la triste notizia che Padre Giovanni Battista dal Giglio, della Provincia Romana, missionario un tempo della Missione Guardiana di Agra, poi della Missione di Patna, il giorno 1 luglio è morto in Dio a Bhagalpur sul fiume Gange e il giorno seguente sepolto dai fedeli nella sua Chiesa.
Io non avevo la minima notizia della sua malattia; dalla lettera ricevuta oggi sembra che egli a Patna abbia scritto per confessarsi, ma poiché Patna dista da Bhagalpur circa 160 miglia, e la sua malattia, ulcerazione dello stomaco, velocemente peggiorò, fu privato del beneficio di un sacerdote.
Non fu letterato, ma conosceva la lingua Inglese e l'Indostano, per necessaria istruzione, certo non poteva predicare in queste lingue.
Nel primo anno in India soffrí molto.
Quando dopo la mia consacrazione venni a Patna, lo tenni con me affinché per propria esperienza dicesse la verità di quelle cose che erano state scritte e dette contro di lui.
Ma ogni giorno ammiravo sempre di piú la docilità, la affabilità e la sua devozione.
Dunque a lui stesso detti due Missioni e segretamente osservai tutti i suoi passi, organizzai due volte la visita, stetti con lui piú a lungo, girai per tutte le parti della sua Missione.
Su Giovanni Battista non vidi e udii niente altro che bene, cosí da essere piú che bene accetto da tutti.
Ma spese il suo denaro per i poveri, per tre cappelle, e per me allora privo di ogni mezzo. Egli aveva sempre una mensa frugale e manifestò verso tutti una religiosa povertà.
Una volta aumentato il numero dei missionari, lo liberai dalla Missione piú pesante per la sua salute delicata e ora era quasi del tutto privo dei mezzi necessari.
Verso il suo piccolo ed ingratissimo gregge mostrò sempre una grande carità e lodevole zelo: assiduo nell'istruzione della gioventú, operoso ed edificante nei fondamenti della Chiesa. Dunque insegnò il canto gregoriano alla stesse fanciulle e ai ragazzi indostani, che cantavano ottimamente la Messa latina, i Vespri, le Litanie, vari inni etc., cosicché in tutto il Vicariato in nessun posto, se escludi Doyilinig, dove ho il mio Convento, si conduceva il servizio divino con tanta edificazione e solennità.
Riparò la sua Cappella in Bhagalpur e la provvide in modo ammirevole di ornamenti poveri ma lucidissimi, con quali mezzi e in quale modo non so. Nella sua conversazione apparve sempre non meno affabile che maestoso, e con libertà apostolica dava l'opinione o l'ammonizione.
Molto in orazione e meditazione, ogni giorno trascorreva devotissimamente notevole tempo nella sua Cappella, come semmai il vedere o un importante sua ragione lo chiamasse, conversava con gli scolari fuori della sua casa.
Spesso veniva richiesto, ma poteva tanto raramente fare una confessione afferrò sempre ogni occasione per confessarsi.
Non fu niente altro che un figlio; in qualsiasi anno stetti due volte con lui, poiché la sua Missione è sulla via di altre Missioni che visito ogni anno.
In quest'anno sono stato con lui nella Settimana Santa e li ho consacrato gli oli santi. Non si può dubitare affatto della sua felice morte. Ciò nondimeno mi dolgo moltissimo che egli in morte sia stato privato dei Santi Sacramenti e che io abbia perso un missionario tanto buono, docile e pio.
Lo raccomando molto a Vostra Eccellenza Molto Reverenda e ai suffragi di tutta la provincia. Egli finché era fra i vivi, come spesso mi diceva, applicò molte Messe per i frati defunti della sua Provincia.
Per quanto so il reverendo Padre Giovanni Battista è incardinato nella Provincia Romana,a cui prego di trasmettere copia di questa lettera.
Sullo stato ecclesiastico e sulla Santa città di Roma e del dilettissimo nostro Pontefice Pio IX qui molto siamo afflitti e ogni giorno facciamo preghiere pubbliche.
Suo con profondissima venerazione
Molto Reverendo Padre Provinciale
Umilissimo Servo della Paternità Vostramolto Reverenda
Anastasio Hartmann
Cappuccino svizzero dell'Episcopio di Derbo e qui Vicario Apostolico di Patna.




COLLECTANEA FRANCISCANA
Anno 1960
Pag. 453-456

Ci è stata gentilmente consegnata per la pubblicazione su questa rivista una lettera del Vescovo Anastasio Hartmann, copia della quale è conservata negli archivi della provincia cappuccina di Roma, e che non compare nel volume I di Monumenta Anastasiana, dove la corrispondenza ufficiale è stata raccolta dal servo di Dio negli anni 1830-1852.
Con questa lettera, datata 7 luglio 1849 a Darjeeling (Bengala), il Vicario Apostolico di Patna comunicava al Provinciale di Roma, P. Domenico Antonio di Frascati, della prematura scomparsa di P. Giovanni Battista dell'Isola del Giglio, avvenuta il 1 luglio alla missione di Bhagalpur.
Non si tratta di necrologio o notizia convenzionalmente elogiativa: il volume e il contenuto sono autenticamente sinceri, e tutto coincide con quanto scrive lo stesso giorno al Procuratore generale dell'Ordine, don Felice di Lipari, e al card. J. F. Fransoni, prefetto della Congragazione di Propaganda Fede, al quale era anche solito segnalare chiaramente le deficienze dei missionari.
P. Giovan Battista fu uno dei quattro missionari con cui Mons. Hartmann inaugurò nel marzo 1846 il suo vicariato, ceduto come poco meno che inetto o indesiderabile da Mons. J.A. Borghi, Vicario Apostolico di Agra.
P. Giovanni Batista, infatti, da Melegnano, della provincia di Parma o Lombardia, conosceva solo l'indostano popolare; Padre Damaso di Torino, della provincia piemontese, non parlava abbastanza inglese; i PP. Filippo da Genova e Giovanni Battista dell'Isola del Giglio, entrambi della provincia romana, ignoravano entrambe le lingue, indispensabili per l'apostolato a Patna. Monsignor Hartmann dovette arrangiarsi con questi quattro missionari per piú di un anno a curare la cattedrale, due chiese e cinque cappelle aperte in quell'immenso vicariato di oltre 500.000 km quadrati. E quel che è peggio, tutti, tranne uno (il nostro P. Giovan Battista), hanno causato a Monsignore grandi à. Padre Giovan Battista de Melegnano professava un rigorismo semi-giansenista che rendeva quasi impossibile ai fedeli confessarsi; Padre Filippo, di carattere insopportabile, dovette essere inviato in provincia nel 1847; Padre Damaso, temerario e sregolato, fu per il povero vicario apostolico "vera croce e scuola di pazienza".
Era però padre Giovan Battista dell'Isola del Giglio che era giunto in vicariato in condizioni piú pietose: minacciato di sospensione e in procinto di essere rimandato in provincia perché piú volte accusato del famigerato "crimen sollicitationis" (reato di adescamento). Il vescovo Hartmann lo ricevette e lo trattò con squisita delicatezza. Seguendo la sua regola d'oro: "Tanti momenti est, ut pastores primis ordinis omnia propriis oculis" (è molto importante che i Pastori prima di tutto vedano con i propri occhi), lo tenne per qualche tempo al suo fianco per l'osservazione e la sperimentazione, e allo stesso tempo gli insegnava i rudimenti dell'indostano e dell'inglese.
Una seria indagine del caso e i continui esempi che P. Giovan Battista ha dato di misericordia e docilità, hanno dimostrato che l'accusa era una calunnia eun'interpretazione maliziosa.
Nello stesso anno fu incaricato delle cappelle o stazioni missionarie di Bhagalpur, Purneah e Monghyr, che contavano un totale di 375 cattolici; nel 1847 lo sollevò da Purneah.
Delicato di salute e mal gestito inglese e indostano, P. Giovan Battista lavorò però con grande zelo, fervore e frutto, come attesta la lettera da noi pubblicata.
L'aggravarsi della sua malattia (ulcera o cancro allo stomaco), sentendosi in punto di morte, il 26 giugno 1849, scrisse alcune righe patetiche a P. Lorenzo di Cento, residente a Patna, a 160 miglia di distanza, chiedendogli di venire ad amministrargli i santi sacramenti. Non aveva osato chiamare Padre Damaso, che si trovava a Purneah, a 60 miglia di distanza, essendosi questo rifiutato capricciosamente, in altre occasioni, di confessarlo. Padre Lorenzo arrivò a Bhagalpur il 2, quando i fedeli avevano già seppellito il loro missionario.
Poco dopo, il 26 luglio, P. Damaso morí in un affluente del Gange, sbranato da un coccodrillo. Il vescovo Hartmann, sempre cosí prudente nei suoi giudizi, non esitò a qualificare questa tragica morte come punizione divina.
Certamente Mons. Hartmann soffriva immensamente dell'incapacità linguistica dei suoi primi missionari, ma dava maggior importanza alla santità, all'apostolato del buon esempio. Di lui selezioniamo alcune frasi: "Hic enim nihil proficiemus, si non plus exemplo quam verbo provideamus. Non boni religiosi, sed sancti requirerentur". (Perché qui non faremo progressi se non provvediamo piú con l'esempio che con la parola. Non buoni religiosi, ma sarebbero richiesti santi). "In missione exemplum plus est quam sermo, et orazio plus quam scientia" (Nella missione, l'esempio è piú della parola e la preghiera piú della conoscenza). "Bonus religiosus mediocris tantum missionarius erit" (Un buon religioso sarà soltanto un missionario mediocre).
Applicando questi assiomi al P. Giovan Battista, che il vescovo Hartmann definí "optimus pater" (il migliore padre), "in oratione ac meditazione assiduus" (costante nella preghiera e nella meditazione), "vir multis virtutibus ornatus" (un uomo adorno di molte virtú), "vir sanctus" (un sant'uomo), possiamo concludere che nella stima del vicario apostolico era davvero un ottimo missionario.
Il necrologio della sua provincia romana, sulla base di queste informazioni, lo ricorda come "fervidus animarum zelator, qui iuvenis adhuc sed laboribus attritus, sancte obiit" (un fervente fanatico delle anime, che era ancora giovane ma sfinito dalle sue fatiche, morí santamente).
L'epitaffio posto sulla sua tomba nella chiesa di Bhagalpur ne perpetua il ricordo "a zelaous priest and warm friend" (un prete zelante ed un amico caloroso).

 





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